Il lavoro passionale
Partiamo dalle definizioni: chi è il “creativo”? Molto spesso chi non lavora nel design e nella comunicazione commette l’errore di immaginarlo come una figura mitologica dal look sempre alla moda e non convenzionale, che lavora in contesti informali, che occupa gran parte del tempo in giocose sedute di brainstorming in cui vengono condivise proposte irriverenti fino ad arrivare al lampo di genio che costituisce il costosissimo output di cui le organizzazioni non possono fare a meno, e per il quale sono disposte a pagare cifre costosissime. Una figura molto vicina a quella dell’artista che, seduto nel suo circolo di eletti, ogni giorno viene pagato profumatamente per divertirsi e fare ciò che gli piace.
Chi conosce questa industria sa benissimo che non è proprio così; quello legato alla creatività è un lavoro che a tratti può essere estenuante, che richiede metodo e disciplina e che come ogni lavoro si basa su un gran numero di compromessi. L’output generato dall’attività creativa infatti è abbastanza noto (campagne pubblicitarie, brand identity, prodotti fisici e digitali ecc...), mentre non è altrettanto noto l’investimento emotivo che richiede il cimentarsi in questo tipo di professione.
La definizione che negli anni mi è sembrata più vicina alla realtà è quella che ne dà Gabriele Drago nel suo articolo Chi è il lavoratore passionale, la vittima e carnefice dell’industria creativa. Il termine passione non deve erroneamente suggerire che il “creativo” sia l’incarnazione del celebre motto “fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita” di confuciana memoria. Al contrario, si tratta di un professionista che vede assottigliarsi enormemente il confine tra vita professionale e vita privata; un lavoratore per il quale il lavoro, per citare sempre Gabriele Drago, “si insinua anche nei momenti più noiosi della vita, come i tempi morti o quelli dell’attesa, quando per esempio scrolla annoiato lo stream di Instagram per cercare ispirazioni e stimoli che contribuiranno alla formazione di uno sguardo o di uno stile che impiegherà poi nelle sue produzioni creative, digitali e cognitive...”.
Nella maggior parte dei casi quindi il creativo è un professionista che non smette mai di lavorare, anche al di fuori delle ore previste dal suo contratto, e di conseguenza particolarmente esposto a ricadute sulla propria emotività e sulla sfera personale. Le organizzazioni che si trovano a gestire queste figure professionali possono trarre un grande beneficio dall’approccio “passionale” alla professione. Per questo, il rapporto organizzazione-professionista creativo deve essere incentrato sull’idea di “restituire qualcosa indietro”. Al di là del compenso economico stabilito dal contratto, l’organizzazione dovrebbe farsi carico di alcune accortezze nell’organizzazione del lavoro di tali professionisti, dettate principalmente da due aspetti.