La maieutica del branding

Come un’organizzazione può conoscere sé stessa

THINK AHEAD 
Arianna-Morandi-1
Come possiamo accompagnare le organizzazioni verso la consapevolezza che tutto parte da noi, da quello che siamo e dal perché lo facciamo? E come si arriva a determinare il proprio perché, il proprio brand purpose? Attraverso la nobile arte non solo di porsi le domande giuste, ma di far sì che anche gli altri siano in grado di porle, prima di tutto a sé stessi.
Se dovessi sintetizzare quello che sto per scrivere in due parole (per dirla all’americana, la versione tldr;) sceglierei un verbo e un sostantivo. Il verbo sarebbe: stimolare. Il sostantivo: curiosità. Bene, ora che ho stimolato la vostra curiosità possiamo cominciare.
Forse vi sarà capitato di sentire la parola “maieutica”, sui banchi di scuola o in qualche occasione in cui si parlava di filosofia. Se l’è inventata un tizio che si chiamava Socrate, e che invece di racchiudere le sue idee sul mondo in una dottrina, ha preferito sperimentare un metodo: non per rivelare una presunta verità assoluta, ma per stimolare il processo che porta a ricercarla.
Convinto com’era che la vera conoscenza potesse scaturire solo attraverso l’indagine, fu il primo a comprendere come tale indagine, per avere davvero valore, dovesse fluire come uno scambio fra individui, una forma dialogica fatta di domande, volte ad approfondire sempre con maggiore insistenza un argomento. Uno scambio del genere porta sempre gli individui a interrogarsi in maniera autentica sulla consapevolezza di sé, punto di partenza per la ricerca di significato.
Lungi da me impartire una lezione di filosofia da bar, ma ecco qui la prima domanda: perché non applicare questa stessa metodologia non solo al branding, ma alle stesse organizzazioni? La cosa che trovo più affascinante del parlare di metodo è che non è appunto una scienza esatta, ma un approccio, un modo di intendere e fare le cose che in qualche modo influenza e indirizza quel che sarà. Perchè di base, per continuare a filosofeggiare un po’, “quel che sarà”, lo sviluppo futuro, esiste già in potenza, ma spesso non sa come esprimersi. Sta a noi, con il giusto approccio, riuscire a farlo esplodere in tutta la sua potenzialità.
La seconda cosa davvero affascinante è la natura delle organizzazioni, che altro non sono che insiemi di individui, di persone. E - per tornare a Socrate - cosa sono le persone se non creature da indagare nella propria interiorità, nel modo in cui formulano un’opinione, sviluppano un ragionamento, stimolano un pensiero? Esatto: it’s all about us. Che responsabilità, lo so. Questa presa di coscienza potrebbe entusiasmare, ma anche atterrire: non basta il lavoro quotidiano con cui dobbiamo confrontarci e misurarci ogni giorno? E su cui a nostra volta veniamo misurati e confrontati? Dobbiamo anche impiegare energie per indagarci e conoscerci? 
Molto spesso, parlando con tante organizzazioni anche molto diverse fra di loro, ci capita di riconoscere un leitmotiv, una sorta di filo rosso che le collega, riconducibile il più delle volte a una mancanza di autoconsapevolezza dell’organizzazione stessa. Spesso arrivano da noi con una richiesta, ma indagando insieme ci si rende conto che quella non è la cosa di cui avevano davvero bisogno. 
La quotidianità, infatti, per quanto confortante nella ripetitività delle azioni che compiamo, ci porta sempre di più a ragionare per schemi prefissati, pattern ideologici e di senso che non fanno altro che semplificare le nostre azioni e il nostro processo decisionale, appiattendo però la nostra capacità di indagare davvero il senso delle cose che ci accadono o che facciamo accadere. Per semplificare, cercando di non appiattire: più lavoriamo, meno ci ricordiamo perché lo stiamo facendo. E più un’organizzazione e un’azienda crescono, più rischia di diluirsi la ragione che aveva smosso le azioni iniziali e aveva portato alla loro nascita e fondazione. Questo non significa che quella ragione debba restare intatta e immutata nel tempo, può evolversi con l’evolversi dell’azienda, del mondo del lavoro, delle persone che la compongono, ma la cosa importante è continuare a interrogarsi per non perdere mai il senso di ciò che si fa.
In una parola, il brand purpose: concetto bellissimo, a tratti abusato, spesso trasformato in trend. Ma oltre a tutto questo il brand purpose è l’elemento fondamentale che un brand deve tenere a mente per non perdere la bussola delle proprie azioni nel mare magnum del lavoro che c’è da fare ogni giorno per mandare avanti un business. Deve essere il faro che guida ogni passo, anche il più piccolo, per essere sicuri di muoversi nella direzione giusta e di avere tutti gli strumenti necessari per intraprendere un percorso volto a raggiungere un determinato obiettivo. La cosa più importante per tenere viva la fiamma del brand purpose è continuare a farsi domande. Come anticipavo qualche riga più sopra, spesso ci capita di parlare con clienti che ci chiedono aiuto o supporto e altrettanto spesso, anzi sempre, ci capita di interrogarci con loro proprio sulla natura stessa di queste richieste, per andare più a fondo, per comprendere meglio, per poter rispondere meglio. Questo metodo ci ha portato più volte a individuare la vera natura di ciò di cui le organizzazioni avevano bisogno: qualcosa di completamente o parzialmente diverso da quello che ci avevano chiesto in prima battuta. Spesso le organizzazioni pretendono di partire da una fase quasi conclusiva di un processo che, per avere davvero senso, doveva invece cominciare qualche passo indietro, mettendo insieme altre attività preliminari. Questo chiaramente non capita sempre, ma capita abbastanza di frequente da averci fatto cogliere l’importanza del nostro ruolo nei confronti del cliente, inteso come capacità di instaurare un dialogo alla pari, in cui interrogarsi vicendevolmente per avere una visione più chiara del tutto. In quanto occhio esterno poi, il nostro è ovviamente più distaccato e per questo privilegiato, ma per fare la differenza lo scambio e la sinergia con l’organizzazione del cliente è fondamentale.
Come per Socrate, anche la nostra infatti non è una dottrina, ma un metodo, un approccio: nessuno conosce l’azienda per cui lavora meglio di chi ci lavora, il cliente è il nostro oracolo da questo punto di vista, ma il nostro dovere, per fare davvero i suoi interessi e di conseguenza per fare al meglio il nostro lavoro, è interrogarlo nella maniera giusta. E l’unica maniera giusta per fare delle domande è fare in modo che queste stesse domande portino il cliente a porsene altre, volte a rispolverare la fiamma del brand purpose, spesso sepolta sotto cumuli di polvere e operatività.
Ma come fare a farsi le domande giuste? Tenendo sempre a mente la cosiddetta big picture, la visione aziendale, la sua missione. Uno strumento molto utile per avere tutto questo sempre chiaro e allo stesso tempo avere un faro che guidi verso la formulazione delle domande più corrette, è la Brand Platform. Una carta d’identità aziendale che, se compilata nella maniera corretta e interrogata altrettanto bene, è capace di indirizzare al meglio tutte le azioni e le espressioni attuali e future del brand, su tutti i touchpoint, verso tutti i suoi principali stakeholder. Perché la coerenza, si sa, per chi come noi fa del branding il proprio credo, è fondamentale. 
Esistono molteplici modi di intendere una Brand Platform: anche qui non parliamo di una scienza esatta, ma piuttosto di un termometro, in grado di intercettare tutte le sfumature che costituiscono l’anima di un brand e di un’azienda. La chiave per cogliere e interpretare al meglio tutte queste sfumature sta nell’individuare l’intersezione che naturalmente esiste fra le tensioni culturali che muovono e animano lo scenario in cui il brand agisce e la promessa fondamentale su cui si fonda tutta l’azione del brand. Individuare e interpretare correttamente questo punto di contatto è fondamentale.
Comprendere cosa accade nel mondo e intercettare gli avvenimenti più importanti è lo stimolo, la scintilla primordiale che ci consente di capire e decidere in che modo il brand possa e debba rispondere a un determinato fenomeno sociale e culturale.
Semplificando, è la versione complessa della classica dicotomia fra domanda e mercato, in cui a essere determinante non è solo cosa il brand deve fare per rispondere a un dato bisogno, ma come lo deve fare in virtù della sua ragione d’essere, andando a individuare il suo posizionamento più idoneo, proprio all’interno dello scenario che ha esaminato. Il posizionamento è un’altra parola chiave che ronza nelle menti di chi si occupa di brand, quasi fosse un mantra: se è chiaro il perché facciamo qualcosa (il nostro brand purpose), allora è fondamentale individuare anche l’area di opportunità corretta in cui posizionarci per andare a perseguirlo in maniera efficace, ma soprattutto il più distintiva possibile.
La Brand Platform ci viene in aiuto anche in questo caso, interrogando il brand per individuare la sua ragione profonda e indagando lo scenario in cui si inserisce per cogliere tutte le tensioni che lo animano. Mettendo insieme il frutto di queste analisi, saremo in grado di mettere a fuoco il cosiddetto Core Insight, ovvero il modo in cui il brand si inserisce nel suo contesto di riferimento in modo unico e distintivo, aprendo la strada alla piena consapevolezza e individuazione del proprio posizionamento sul mercato.
Ci facciamo un sacco di domande insomma, ma alla fine, quello che non ho ancora detto, è che troviamo anche un sacco di risposte, che ci consentono di impostare insieme la rotta futura. Avevo iniziato questo articolo con un timore, quello di non essere abbastanza interessante, ma anche con un obiettivo dichiarato: stimolare quantomeno la curiosità di chi mi avrebbe letto. Se ci sono riuscita, bene, e se volete approfondire, parliamoci. Siamo qui per farci tutte le domande di cui saremo capaci.
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