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Perché in futuro gridare non servirà a distinguerci

THINK AHEAD 
Marta-Nava
In un ambiente comunicativo affollato di messaggi e dominato dal rumore di fondo, la tentazione più ovvia per chi fa comunicazione è quella di gridare. Alzare la voce, scrivere in maiuscolo. Eppure, in un mondo in cui tutti gridano, nessuno riesce a farsi sentire. E in un mondo in cui tutti pronunciano le stesse parole, nessun messaggio riesce a emergere. Che fare allora? Dobbiamo uscire dal ricatto dell’attenzione: smettere di urlare, e individuare storie e significati che si impongono perché sono rilevanti e non perché sono scritti in maiuscolo.

Lasciami gridare

La risposta sembrerebbe semplice. Per farsi sentire, per uscire dal coro, per essere notati, basta gridare più forte. Comunicare di più, essere più presenti, alzare il volume. Ne parliamo spesso, quando lavoriamo e prepariamo le nostre presentazioni. L’alternativa riguarda anche i piccoli dettagli: usiamo le maiuscole per sottolineare tutte le parole chiave, i concetti importanti, le frasi decisive? Oppure diamo alle parole e alle frasi un aspetto più omogeneo: poche maiuscole, un tono di voce più meditato e accogliente?
Alla fine si tratta di due diverse visioni del mondo: alzare un po’ la voce, far sognare, puntare in alto, dare a chi legge l’idea che si può arrivare lassù, dove svettano le maiuscole; oppure parlare più piano, con un tono più intimo e confidenziale. Evocare emozioni forti oppure persuadere con la razionalità.
Può sembrare una questione di poco conto, eppure nell’era dell’attenzione scarsa ogni dettaglio è decisivo per agganciare gli occhi, e quindi la mente, del pubblico. Le più importanti piattaforme di contenuti, come YouTube o Spotify, inducono a usare le maiuscole per enfatizzare i titoli e attirare l’attenzione. Forniscono dati in cui garantiscono che i titoli scritti in maiuscolo performano meglio. 
Sarà sempre più facile imbattersi in Titoli di Video o di Canzoni Scritti Così. Per non parlare di quelli scritti TUTTI IN MAIUSCOLO. 
Certo, si tratta di una strategia che non sembra avere un grande futuro: in prospettiva, quando tutti scriveranno titoli con le lettere maiuscole, niente sarà più in evidenza. Quando tutto sarà maiuscolo, niente sarà maiuscolo: ed è un po’ una metafora della nostra società, che ci ha abituato agli shock seriali, all’emergenza permanente. E a forza di notizie sensazionali e titoli gridati rischia di renderci assuefatti all’eccesso.
Il problema delle maiuscole è solo un sintomo, ma ci aiuta a ragionare su una questione molto più ampia, e più importante: in un sistema comunicativo attraversato da una quantità esorbitante di messaggi, che creano un fortissimo rumore di fondo, come si fa a farsi ascoltare? Cosa scegliamo di sottolineare, a cosa diamo importanza, e quindi su cosa puntiamo per distinguerci? Secondo uno studio recente sulla distintività dei brand condotto da JKR per Ipsos, la maggior parte dei brand non riesce a impostare una comunicazione davvero distintiva. Solo il 15% dei brand possiede asset che si possono definire pienamente differenzianti.
Se ci concentriamo sulle parole va ancora peggio: solo il 6% dei sistemi verbali analizzati garantiscono una riconoscibilità forte. L’81% dei claim, degli slogan, dei messaggi sono quasi del tutto irriconoscibili. Parole al vento. E se si parla al vento, gridare non è la soluzione.

Le anfore della Mesopotamia

Più di 7000 anni fa, nelle terre tra il Tigri e l’Eufrate, gli umani hanno cominciato a sigillare con l’argilla le anfore con cui commerciavano alimenti o tessuti. E hanno avuto l’idea di imprimere sui sigilli d’argilla dei simboli che permettessero di distinguere i produttori o la provenienza delle merci. In quei simboli possiamo riconoscere i primi marchi. I primi brand.
Quel simbolo infatti non era semplicemente un nome. Non conteneva soltanto un’informazione. Conteneva una promessa: di qualità, di affidabilità, di “tracciabilità”. Conteneva già l’idea della differenza e della distinzione. La stessa idea che ancora oggi, 7000 anni dopo, le organizzazioni sperano di poter affidare alla propria identità di brand.
Lo scopo del branding è creare un’associazione immediata, che si attiva automaticamente nella mente delle persone: non solo tra il simbolo e il prodotto, ma tra il simbolo e un mondo possibile, una dimensione della realtà e dell’esistenza. Il brand non evoca soltanto oggetti o servizi: evoca storie, esperienze, una voce e una personalità, un modo di vivere.
Rispetto alle anfore della Mesopotamia, però, la faccenda ha cominciato a complicarsi quando, con l’aumento della produzione, il mondo delle merci, e quindi dei marchi, è diventato sempre più affollato. Sempre più simboli, sempre più difficile accaparrarsi l’attenzione, sempre più necessità di distinguersi e di fare qualcosa di diverso da quello che fanno gli altri. Normale che qualcuno abbia pensato di mettersi a gridare.
Zona-Blu

Zig, Zag

A causa della continua caccia all’attenzione nel mondo della comunicazione si passa spesso attraverso cicli in cui si alternano tendenze opposte. Si potrebbe dire: momenti di lettere maiuscole e momenti di lettere minuscole. Come ha sintetizzato la leggendaria campagna Levi’s del 1981, in cui nell’immagine di un gregge di pecore tutte orientate verso una direzione, spiccava una pecora nera rivolta dalla parte opposta. When the world zigs, zag. Quando tutti fanno zig, tu fai zag. I trend dominanti e le mode della comunicazione hanno seguito l’andamento di questo zigzag. Dopo la rivoluzione industriale, nel corso dell’Ottocento, la nascita dell’advertising moderno ha prodotto un’esplosione creativa, una comunicazione fantasiosa e sfrenata, e una tendenza dominante decisamente gridata. Zig.
E poi zag: nel Novecento il design diventa una disciplina “scientifica”, che cerca di razionalizzare e rendere più meditata la comunicazione visiva. Nel cuore del secolo, con l’età dell’oro del copywriting, si sviluppano tecniche di comunicazione più sottili e raffinate, a volte perfino contro-intuitive, in cui ironia e intelligenza sostituiscono la tendenza a gridare.
Si pensi alla campagna inventata dall’agenzia di Bill Bernbach per Volkswagen, che ha rovesciato tutti i luoghi comuni della pubblicità e dell’industria automobilistica: Think Small era il claim, con il mitico maggiolino mostrato solo in lontananza, un puntino perduto in una pagina bianca. A proposito di maiuscole e minuscole…
Negli anni Ottanta e Novanta, poi, con le tendenze grafiche e comunicative post-moderne, l’esplosione dei nuovi media e della cultura pop, siamo tornati a urlare un po’. A fare cose più vistose e gridate. Zig. 
Nel nuovo millennio, invece, di nuovo zag: con lo sviluppo delle tecnologie digitali si è affermata una tendenza alla semplificazione. Ridurre la complessità, tendere a forme più piatte e facili da diffondere attraverso gli ambienti digitali. Fino agli eccessi del movimento che Paul Worthington ha battezzato ironicamente “Helvetica in pastel”, font Helvetica e colori pastello. Ovvero la tendenza al blanding infinito, che rende i brand davvero tutti molto simili, in una corsa alla somiglianza, alla ripetizione dell’esperienza-piattaforma, ricercata spesso a scapito della distintività. Ed eccoci alla situazione fotografata dal report di JKR: asset poco distintivi, brand incapaci di differenziarsi, parole (e investimenti) al vento.

Parlare con forza non è parlare forte

In questo momento storico siamo di fronte a due movimenti che convivono uno a fianco all’altro, pur essendo apparentemente contrastanti. Da un lato abbiamo la lotta urlata per l’attenzione, il clickbait, l’esasperazione dei messaggi e l’iperbole: tutto è maiuscolo, tutto è sensazionale, tutto è breaking news.
Dall’altro lato l’ingresso massiccio dell’intelligenza artificiale nei nostri processi di lettura e produzione dei contenuti favorisce la proliferazione di messaggi “medi”, proprio nel senso della media statistica. A causa del suo funzionamento probabilistico l’AI ci restituisce output perfettamente in media (qualcuno direbbe: mediocri). Distinzione, cambiamento, disruption però arrivano quasi sempre dagli estremi, proprio da ciò che non sta nella media: e il tutto minuscolo dell’intelligenza artificiale rischia di diventare tanto illeggibile quanto il tutto maiuscolo del clickbait.
Ci troviamo quindi in una situazione apparentemente paradossale: urlare e parlare in modo standard hanno lo stesso risultato. Non sono azioni distintive. Non creano differenza, perché rispondono entrambe a una tendenza dominante, in cui tutti noi ci troviamo, spesso contemporaneamente: “ci ispiriamo” in modo molto ravvicinato a quello che fanno i competitor (la media), e usiamo call to action esagerate, spesso promettendo più di quello che riusciamo a mantenere (l’iperbole). 
Continuiamo a fare zig tutti insieme, senza nessuno che trovi il coraggio e la creatività per fare zag. 
In questo contesto, il futuro delle parole e della comunicazione forse è proprio uscire dal ricatto dell’attenzione a tutti i costi: smettere di urlare, e impegnarsi per individuare storie e significati che si impongono perché sono rilevanti e non perché sono scritti in maiuscolo. Cercare ciò che c’è di più autentico in un’organizzazione, trovare il senso profondo del suo messaggio e provare a comunicarlo nel modo più efficace e onesto possibile. 
Dall’altro lato, dovremo continuare a indagare ciò che è davvero distintivo, ciò che non sta nella media, le storie capaci di creare una differenza significativa nella mente di chi ci legge e ci ascolta. I tool generativi in questo senso saranno uno strumento prezioso, perché sapranno indicarci in modo sempre più netto il “discorso medio”, ciò che sta in mezzo, e quindi ci aiuteranno a capire meglio in che modo possiamo trovare direzioni divergenti.
Ogni tanto spunta qualcuno che propone di limitare, censurare, circoscrivere in qualche modo il numero di contenuti leggibili sui social o in rete. Probabilmente non sarà questa la soluzione al problema dell’overload informativo, ma forse ci dà uno spunto interessante per capire come fare a scrivere e comunicare meglio. Se impariamo a pensare che davvero chi legge ha un numero limitato di contenuti a cui prestare attenzione - perché di fatto è così, a prescindere dai sogni dei censori - cominceremo a scrivere pensando che non possiamo sprecare la nostra occasione, dobbiamo consegnare il miglior messaggio possibile. Impareremo a mettere qualche punto esclamativo in meno, e qualche punto interrogativo in più. A fare meno affermazioni perentorie, e formulare più domande strategiche.
Infine, dovremo avere l’ambizione di seguire il consiglio che un intellettuale del secolo scorso, Bobi Bazlen, dava agli scrittori e alle scrittrici: “dovete scrivere o il minuscolo, o l’immenso”. Avere l’umiltà di togliere qualche maiuscola, e di pronunciare parole più schiette e spontanee. E allo stesso tempo puntare sempre a scrivere storie che siano importanti, significative, che abbiano una risonanza profonda con la vita delle persone.
Inspire + Transform +Inspire + Transform +Inspire + Transform +
Let's work together
There’s no such thing as an impossible project.
Hit us up and let’s get to work.

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