Stand out risuona in testa come una domanda ripetuta, simile a una goccia scomoda che scava sempre nello stesso punto. Siamo sempre più mitragliati da domande alle quali è difficile trovare risposte, ma confessarlo oggi pare quasi un delitto. Con mia sorpresa, stand out ha invece portato alla luce tante risposte, ma in un fenomeno strano di scatole cinesi che non aveva mai fine. Lo sforzo è stato fermarsi quel tanto che basta a trovare l’ultima scatola, perché quella scatola custodisce la propria voce, unica. E lo sforzo è tanto maggiore quanto più forte è l’abitudine al silenzio o, meglio, l’educazione al silenzio. In questo spazio di libertà ancora da scrivere, mi sono sentita persa. La cosa mi ha stupita, a tratti l’ho percepita come un tradimento, come se fossi stata tradita dalla me che faticava a mettere mano alla tastiera.
Invece era solo in corso un processo che non riconoscevo.
Mi è venuto poi in mente l’esatto momento in cui ho provato lo stesso brivido. Avevo 13 anni, 1000 lire in tasca, residuo di un faticoso crowdfunding familiare, e sono entrata in libreria. Un gesto quasi eversivo a quell’età e a quell’epoca. In una libreria di provincia ho comprato l’edizione tascabile di Una Stanza tutta per sé di Virginia Woolf. L’editoria da poco cominciava a diventare più accessibile e quelle 100 pagine a 1000 lire, hanno rappresentato la mia prima, vera emancipazione culturale dalla famiglia. Un’emancipazione fatta di caratteri piccolissimi, frasi fitte fitte e carta scura e ruvida: la libertà sa essere scomoda. E scomodo è stato anche quel libro che è ancora qui di fianco a me con le marcature della me teeneger.