Nella comunicazione e nel marketing ci sono buoni propositi che, insieme ai clienti, ci ripetiamo a vicenda ininterrottamente. Possiamo ridurre il tutto a un unico mantra, molto ben riassunto dal sempre causticamente efficace Tom Fishburne in una vignetta memorabile, in cui un manager annuncia la propria strategia al board riunito intorno a un tavolo: “Dobbiamo differenziare il nostro brand, a patto che lo facciamo esattamente nello stesso modo in cui lo fanno i nostri competitor”.
Il risultato? Tanto per restare con le mani bene affondate dentro alla marmellata dell’ideatore di Marketoonist, è più o meno quello di un’altra vignetta: dopo averci costretto a eliminare ciò che è troppo rischioso, troppo diverso, troppo provocatorio, troppo anticonvenzionale, troppo strano, troppo poco testato, troppo difficile, troppo costoso, i respon- sabili dei brand ci chiedono: un momento, e ora cos’è che ci differenzia?
Quello di cui accusiamo l’ancora abbastanza incolpevole Intelligenza Artificiale Generativa, ovvero recuperare il peggio dal grande magma dell’ovvio, senza creare nulla di veramente nuovo e unico, è spesso il novanta per cento della struttura del linguaggio e dei contenuti di cui le marche decidono di dotarsi per parlare alle persone. Quindi la risposta alla domanda “Le marche sono davvero disposte a distinguersi senza cedere alla tentazione di rincorrere?” è inequivocabilmente: no, non lo sono. Solo una cosa può, e soprattutto potrà, aiutarci a rendere quel “no” meno rigido, fino a poterlo plasmare dandogli prima la forma di un “forse” e poi quella di un “sì”, ed è la verità. Vediamo assieme alcuni momenti topici nei quali dire la verità può essere davvero difficile, persino quando si tratta di parlare con noi stessi.