Visual Alphabet

Se non hai un alfabeto visuale come puoi costruire messaggi che arrivino al tuo pubblico?

THINK AHEAD 
Graziano-Losa
Per comunicare in modo efficace un brand ha bisogno di due cose: messaggi e azioni. Le azioni sono ciò che viene raccontato al pubblico attraverso i messaggi. Per costruire messaggi capaci di parlare al pubblico, però, e di raccontare le azioni in modo coerente e distintivo, il brand ha bisogno di un alfabeto visuale. L’alfabeto visuale non solo crea e definisce l’identità di un brand, ma dà forma a tutti i suoi messaggi. È un codice che può cambiare nel tempo ed evolvere, adattandosi a diversi stili a seconda delle diverse esigenze di comunicazione. È la sintesi delle caratteristiche di un brand, e il motivo per cui le persone possono riconoscerlo e sceglierlo tra migliaia di altri.
Tutto ha inizio circa 3 milioni di anni fa, quando il pollice opponibile ci ha permesso di disegnare questo puntino
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A guardarlo adesso quel singolo puntino - reso possibile da uno scatto evolutivo della specie umana, la cosiddetta “presa di precisione” tra pollice e indice della mano - non è troppo distante dallo swoosh di Nike, uno dei loghi più riconoscibili al mondo. Tra l’uno e l’altro ci sono centinaia di migliaia di anni, fenomeni geologici, eventi storici, trasformazioni culturali, innovazioni tecnologiche, la rivoluzione digitale. Eppure nella sua gestualità meccanica, nel movimento istintivo che lo fa nascere, il segno grafico moderno sembra portare con sé ancora tutta la sua essenza primitiva. 
Non sappiamo se Homo Habilis concepisse già il segno come facciamo noi “moderni”, cioè come una rappresentazione alla quale attribuire un significato. Però sappiamo che c’è una continuità profonda e tenace tra i nostri gesti e quelli dei primi umani. Tra il loro bisogno di espressione visiva e il nostro. 
Facciamo un esempio: la rosa camuna, attuale simbolo della Regione Lombardia, disegnato nel 1975 da diversi designer grafici tra cui spiccano i nomi di Bob Noorda e Bruno Munari, è la sintesi di una raffigurazione trovata tra le pitture rupestri della Val Camonica, risalenti a 4000 anni fa. Quindi i migliori designer del secolo scorso si sono limitati a copiare? Ovviamente no: per i Camuni le pitture avevano un significato magico e socio-culturale, senza alcuna intenzione comunicativa, né diretta ai contemporanei, né tanto meno ai posteri. I designer moderni però hanno preso quel simbolo e lo hanno trasformato in un’identità, gli hanno costruito intorno un sistema, utilizzandolo come punto di partenza per creare un intero alfabeto visivo, che permette ancora oggi di riconoscere chi ci sta parlando. L’identificazione tra il simbolo e l’identità del brand (in questo caso, dell’istituzione) è immediata. 
Un alfabeto visivo è composto da tutti i tratti grafici fondamentali che permettono di riconoscere l’identità, la cultura e il linguaggio di un gruppo o di un’epoca storica, ma anche di un’organizzazione o di un brand.

Vediamo qualche esempio

Già 30.000 anni fa eravamo ottimi designer: osservate oggi, le pitture rupestri della grotta di Chauvet, nel sud della Francia, lasciano davvero a bocca aperta; la bellezza e la complessità del tratto, l’uso del colore e le proporzioni sembrano provenire direttamente dai bozzetti di qualche disegnatore Disney de Il Re Leone. In particolare, in questi disegni si può intuire un primordiale tentativo di riprodurre il movimento su una superficie bidimensionale, la tecnica che ancora oggi è alla base dei keyframes di qualsiasi film o software di animazione. Messe a sistema con molte altre pitture rupestri, queste immagini rappresentano l’alfabeto visuale di un periodo storico che chiamiamo Paleolitico, ovvero del periodo in cui in Europa si diffonde Homo Sapiens, l’essere umano come noi lo conosciamo oggi. 
In qualche modo, quindi, le pitture rupestri rappresentano il sistema visivo che identifica un brand destinato ad avere un discreto successo: l’umanità stessa. Siamo noi, le nostre radici psicologiche, emotive e culturali, a parlare attraverso quelle immagini, e a raccontare la storia di come siamo diventati umani. 
Così nel corso dei secoli gli umani hanno creato altri alfabeti visivi che oggi ci permettono di identificare con certezza, con un solo colpo d’occhio, una precisa epoca storica o un’area geografica: solo sentendo nominare gli Egizi pensiamo subito ai geroglifici, i Celti richiamano complicati intrecci di matrice naturalistica, ma con uno spiccato senso di simmetria, l’achitettura Islamica si associa all’armonia dei suoi archi inflessi, le civiltà mesoamericane alla ricchissima eredità dei loro simboli carichi di significato, le cinque pezze colorate delle bandierine Tibetane ci parlano di vette innevate, spiritualità e natura anche quando sono appese o sui balconi nelle nostre città, l’Aum Hindu è forse uno dei simboli più tatuati di sempre, Yin e Yang evocano una Cina che non c’è più, il costruttivismo Russo di inizio ‘900 racconta un intero periodo storico, pochi tratti di inchiostro nero su un foglio bianco hanno permesso al Giappone di raccogliere un’eredità artistica millenaria che ancora oggi vive nelle pagine dei Manga. 
La logica che permette a questi sistemi visivi di identificare con precisione e immediatezza una civiltà è la stessa che permette a un’identità visiva ben progettata di identificare un brand. E non a caso qualche volta queste due culture si incontrano. Proprio Nike nel 2019 per la serie di prodotti signature del campione NBA Giannis Antetokounmpo, nato ad Atene, in Grecia, è andata a costruire un alfabeto visivo che riprendeva le famosissime “greche”, un pattern che ancora oggi rimanda, a distanza di millenni anche oltre oceano, a un immaginario legato alle divinità Olimpiche, ai templi e agli eroi dell’antichità. E tutti sanno che il nome stesso dell’azienda Nike deriva dal nome della dea della vittoria, che aveva folgorato il fondatore Phil Knight nel corso di un suo viaggio in Grecia.
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Ma se dalla storia ci spostiamo verso il presente, per cercare di capire cosa serve ai brand e alle organizzazioni per distinguersi in ambienti comunicativi e mercati sempre più affollati e competitivi, vale la pena chiedersi: un alfabeto visuale è davvero fondamentale per fare la differenza? 
Il caso di Spotify è forse la prova più tangibile di quanto l’alfabeto visuale possa fare la differenza anche e soprattutto in un mercato di riferimento iper-competitivo. All’inizio degli anni 2000 la fruizione dei contenuti musicali passa attraverso diversi shock, legati per lo più ai processi di digitalizzazione: l’avvento dell’iPod, l’affermarsi di Myspace come hub per la musica in formato digitale, l’ascesa di Napster per la musica piratata, le prime piattaforme esclusivamente dedicate alla musica come iTunes (oggi Apple Music) e successivamente Spotify, Soundcloud, Bandcamp, ecc. Nel primo decennio del 2000 Apple detiene il primato, anche grazie alla grande quantità di dispositivi che ha venduto fino a quel momento. 
Eppure anche in un mercato così competitivo è stato possibile assistere a una svolta e a un cambio di leadership: nel 2015 il rebranding di Spotify viene affidato a Collins, che crea un alfabeto visuale basato sul “colorizer”, una tinta bicolore e sfumata che viene applicata su tutte le fotografie degli artisti. I colori hanno tonalità accese, tendenti al fluorescente per dare maggior contrasto alla Dark Mode dell’interfaccia. Con un dettaglio tecnico che ha lasciato sconcertati i designer grafici di mezzo pianeta: per replicare quell’effetto bastano davvero due colori e un effetto integrato in Photoshop da tempo immemore, il Gradient Map. Pochi click e il gioco è fatto. Un espediente semplicissimo, basato però su un’idea potente: assorbire identità e immagine degli artisti all’interno dell’alfabeto visivo di Spotify. In modo che l’esperienza della piattaforma diventasse coerente e continua anche passando da un contenuto all’altro. 
Risultato? Tra il 2014 e il 2015 Spotify diventa leader indiscusso della digitalizzazione dell’industria musicale: ad oggi (dati del 2023) vanta 500 milioni di utenti attivi al giorno, lasciandosi alle spalle e con un discreto distacco due colossi come Apple e Amazon. 
Spotify ha vinto la gara alla digitalizzazione dell’industria musicale perché, a differenza di giganti come Apple che hanno puntato tutto sul peso che avevano nel mercato, è riuscita a creare, con la fondamentale consulenza creativa dell’agenzia Collins, un alfabeto visuale unico e riconoscibile che ha conquistato uno spazio nella memoria del pubblico di riferimento. 
L’alfabeto visuale è uno strumento fondamentale per la creazione e la definizione non solo dell’identità di un brand, ma anche di tutti i suoi messaggi. È un codice che può cambiare nel tempo ed evolvere adattandosi a diversi stili a seconda delle esigenze di comunicazione. I brand, in comunicazione, hanno bisogno di due cose: messaggi e azioni. Le azioni sono ciò che viene raccontato al pubblico attraverso i messaggi, ma se non hai a disposizione un alfabeto visuale, come puoi costruire messaggi che arrivino al tuo pubblico?
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